cof

L’Ottocento organistico italiano

un'introduzione

Nel 1855, il compositore e critico musicale Luigi Ferdinando Casamorata scriveva sulla rivista “Gazzetta Musicale di Milano»:

“Se si getta lo sguardo sui cataloghi dei nostri editori di musica ivi, alla rubrica «Musica per organo», di contro a tre o quattro buone composizioni scritte nel vero genere conveniente all’ istrumento e alla sua sacra destinazione, si vedranno stare dieci e dieci pezzi di musica su cui brillano i titoli: pot-puorris (sic) sopra i motivi della tal opera, di fantasia sui temi del tal ballo, di pezzi teatrali d’ogni sorta, marce e perfino di ballabili! Ballabili per organo! Bel titolo! Specialmente se ci si aggiunge da suonarsi alla benedizione…»

Per verificare questa affermazione abbiamo cercato i cataloghi degli editori musicali ottocenteschi: ad esempio, il «Catalogo della musica pubblicata» di Giovanni Ricordi, Milano 1838.  Nelle pagine dedicate all’organo troviamo 91 titoli, 46 dei quali contengono trascrizioni di Arie, Marce, Sinfonie e Duetti tratti da opere liriche. Gran parte delle rimanenti composizioni sono pezzi di genere quali Pastorali, Rondò, Polonesi, etc.

 

 

Lo spoglio di alcune raccolte, edite in fascicoli periodici (una forma editoriale che conobbe molta fortuna nell’ottocento), porta ad un analogo risultato; le raccolte più importanti furono “La Ceciliana”, “l’Arpa davidica” o la “Raccolta periodica di fascicoli contenenti musica per organo». Di quest’ultima furono pubblicati più di 400 numeri.

A titolo di curiosità ecco alcuni titoli della musica d’organo che vi possiamo trovare:

Cavatina dalla «Semiramide»

Allegro del Ballo «i Minatori di Salerno»

Aria da «la Villana contesa»

Andante e allegro moderato dalla «Nina pazza per amore»

Cavatina «Se talora più non rammenti»

Se gli editori pubblicavano questa musica, significa che la vendevano! È quindi facile immaginare quale fosse il repertorio degli organisti italiani nel XIX secolo.

Premesse storiche

Ma come si era arrivati a una preponderanza così decisiva della musica operistica su quella strumentale?

L’elenco seguente allinea i maggiori compositori italiani che si dedicarono alla musica strumentale, più che all’opera, morti dopo il 1750:

Domenico Scarlatti, muore a Madrid, 1757;

Francesco Geminiani, muore a Londra 1762;

Giovanni Platti, muore a Würzburg, 1762;

Pier Antonio Locatelli, muore ad Amsterdam, 1764;

Felice Giardini, muore a Mosca, 1796;

Luigi Boccherini, muore a Madrid, 1805;

Giovanbattista Viotti, muore a Londra, 1824;

Muzio Clementi, muore a Londra 1832.

A partire dalla metà del Settecento, i mutamenti sociali e di gusto spostarono l’ interesse musicale degli italiani sempre più sul melodramma; i grandi virtuosi di strumento emigrarono uno dopo l’altro all’estero, in cerca di lavoro. Questa diaspora determinerà le linee maestre lungo le quali si svilupperà la musica italiana dell’Ottocento: che sarà in tutta la penisola il secolo dell’opera lirica.

Il Romanticismo

Il Romanticismo tedesco si servirà proprio della musica strumentale, con la sua indeterminatezza semantica, per esplorare i moti profondi dell’anima e per esprimere il suo anelito all’infinito.

In Italia il Romanticismo venne importato con notevoli semplificazioni. In musica significò innanzitutto una maggiore passionalità; era dunque sufficiente il coinvolgimento sentimentale nelle vicende di un melodramma che, abbandonate le aristocratiche grazie settecentesche, sempre più allargava il suo pubblico nei vari strati sociali.

Per gli italiani romanticismo volle dire essenzialmente vittoria del cuore sulla ragione; da ciò derivò l’affermazione che fosse la melodia la vera forma della musica romantica. Quell’approfondimento dei mezzi armonici e strumentali che servivano ai romantici tedeschi per esplorare le regioni oscure dell’inconscio e del sentimento furono additati come astrusità cervellotiche ed artificiose.

La musica organistica ottocentesca italiana si inserisce in questo clima culturale.

L’organo

Lo strumento organo, pur ancorato ad una tradizione plurisecolare, andò sempre più incontro alle esigenze di un repertorio teatrale.

L’organo italiano mantenne molte caratteristiche invariate dal Rinascimento fino al XIX secolo:

Unicità del manuale. Questa era alla norma fino alla fine del Settecento. Solo all’inizio dell’Ottocento negli organi di grande dimensione si aggiunse una seconda tastiera: l’organo di risposta o organo ecco, che venne quasi sempre collocato in cassa quale positivo laterale alla sinistra della consolle. Griglie in legno azionati da un pedale letto ad incastro permettevano la regolazione del volume, rendendolo adatto ai passaggi più delicati ed espressivi.

La pedaliera, spesso costantemente unita al manuale, aveva solamente uno o due registri propri e sempre solamente registri gravi, intesi a sottolineare il basso.

  • Il principale, in facciata, fungeva da base al trasparente ripieno in file separate. Nel Settecento comparve a volte fra le fila del ripieno la terza, che viene però abbandonata all’inizio del XIXº secolo; il ripieno ottocentesco tende ad avere alcune file acute in più, ma la sua concezione ed il suo impianto non sono molto dissimili dal ripieno cinquecentesco.
  • I registri di colore, i cosiddetti registri da concerto, erano nella tradizione rinascimentale uno o due flauti in VIII^ in XII^ o in XV^, accanto alla Voce umana, un registro di canne di principale nella parte superiore della tastiera, accordato in modo tale da dar luogo a languidi battimenti. Nel corso del XVII e XVIII secolo si aggiungeranno delle ance, solitamente a tuba corta, il cornetto nei soprani ed il flauto di otto piedi nei soprani, denominato a volte Traversiere e più tardi Flutta.

L’organaro Giuseppe Serassi, di cui diremo fra poco, fa merito a suo padre Luigi dell’introduzione in Italia di nuovi registri ad ancia

«Li tromboncini furono le prime canne a lingua, e nelle nostre parti il genitore mio fu il primo ad abbandonarle, facendo in loro vece registri a lingua di diverse strutture e lunghezze, con i metodi armonici di 2,4, 8 e 16 piedi, per cui oltre che conservano di più l’accordatura e riescono più dolci, imitano da vicino il fagotto, il serpentone, claroni, clarinetti, oboè, cornamusa, trombone, violoncello, corno inglese, bassone, bombarde, tromboni e simili.»

L’imitazione degli strumenti divenne l’ideale sonoro degli organari, il cui massimo desiderio (lo ricaviamo da contratti, collaudi e documenti d’archivio) era ingannare l’ascoltatore illudendolo di sentire un’orchestra; e così gli organisti potevano riproporre in chiesa gli effetti che Rossini, Bellini e Donizetti proponevano in teatro.

Melodie ed accompagnamento venivano diversificati grazie alla presenza di sempre più numerosi registri spezzati, vale a dire estesi solo nella metà bassa o nella metà acuta della tastiera.

L’ambito delle tastiere si ingrandì notevolmente ed anche qui largo merito va agli organari Serassi, in realtà l’ingrandimento era funzionale ad allargare l’ambito delle due metà della tastiera: suonando con registri di 16’ nei soprani di 4’ nei bassi si riproduceva quanto aldilà delle Alpi veniva ottenuto con la pluralità delle tastiere, la possibilità di avere contemporaneamente due timbri diversi.

Giuseppe Serassi ci parla di un organo di 69 tasti, in costruzione per le chiese di Treviglio, in un importante scritto dal titolo «Sugli organi, lettere», stampato a Bergamo nel 1816. Questo libricino, impostato in forma di epistolario, è un’importante fonte di notizie organologiche ma soprattutto limpido riflesso dei gusti, della cultura e dell’esperienza tecnica di uno dei componenti la più importante dinastia di organari dell’ottocento italiano. I Serassi si imposero nella scena italiana sia per il numero degli strumenti (il catalogo del 1858 ne riporta 650), sia per la qualità della loro fattura.

La grande produttività della bottega era dovuta ad una solida organizzazione del lavoro e ad una relativa standardizzazione degli strumenti.

Anche alcuni trattati didattici citano testualmente gli organi Serassi nell’insegnare all’allievo l’uso dei registri.

È il caso del Metodo Istituzioni teorico-pratiche per organo, Milano, Vismara, [1875-1878], del fiorentino Giorgio Gioacchino Maglioni, o del trattato Norme generali sul modo di trattare l’organo moderno di Giambattista Castelli e Vincenzo Petrali, che fu adottato dal conservatorio di Milano nel 1862 quale manuale per gli allievi del corso d’organo.

La ricerca di espressività portò il Serassi ad inventare un congegno di leve che permetteva di abbassare l’ottava acuta del tasto premuto. Questo marchingegno, denominato Terzamano, aiutava l’organista ad introdurre momenti più e meno forti nella musica. Il desiderio di dinamica era sicuramente ravvivato dall’invadenza del pianoforte. Ogni organista era infatti innanzitutto un pianista; basti pensare che la prima classe d’organo in un Conservatorio venne costituita soltanto nel 1846: fu il conservatorio di Milano (titolare Francesco Almasio), cui seguì Firenze nel 1859 (titolare Gioacchino Maglioni). Roma ebbe la classe d’organo solo nel 1886 e toccò a Marco Enrico Bossi ad aprire le cattedre di Napoli (1889) e Venezia (1895). Ma siamo già dopo la cosiddetta riforma ceciliana che rivoluzionerà il mondo organistico italiano negli ultimi vent’anni del secolo.

La dinamica era parte essenziale della musica è compito dell’organaro agevolare i disinvolti cambi di registrazione e di sonorità nel corso dell’esecuzione. Nell’Ottocento si diffuse sempre di più la combinazione libera o tiratutti dei registri ,che permetteva di inserire e togliere velocemente i registri prepararti; si introdussero pedaletti di richiamo per i registri da concerto più usati, quali fagotti e trombe, ottavino, corno inglese, etc. Da ultimo un cenno a tutti quegli strumenti applicati all’organo che il Castelli raduna sotto la dicitura banda: si tratta spesso di veri e propri strumenti a percussione, inseriti all’interno dello strumento ed azionati, con grande effetto, dall’organista nel momento di massima clamore della musica. Tamburi, gran casse, piatti, campanelli e via dicendo….

da Giambattista Castelli, “Norme generali sul modo di trattare L’organo moderno”, 1862

Se la famiglia Serassi sicuramente la più importante bottega ottocentesca, molti sono gli artefici, o meglio le famiglie di artefici che portarono l’arte Organaria italiana ad un grande livello artistico, seppur finalizzato alla riproposizione di un repertorio per noi oggi particolare e sicuramente lontano dalle esigenze liturgiche.

Citiamo qui di seguito: Biroldi, Carrera, Mentasti, Locatelli, Lingiardi, Prestinari, Bernasconi e molti altri organari minori legati ad aree geografiche specifiche.

I compositori

Tre sono i compositori oggi considerati quali più significativi esponenti dell’ottocento organistico italiano: Giovanni Morandi, padre Davide da Bergamo, al secolo Felice Moretti e Vincenzo Petrali.

Giovanni Morandi, nato nel 1777 nei pressi di Pesaro, fu maestro di cappella della cattedrale di Senigallia dal 1824 alla morte, nel 1856.

Fu insegnante di canto: in vita si vide sopravanzato in notorietà dalla moglie Rosa, affermato soprano. Rosa Morandi cantò nel 1807 alla Scala di Milano in Così fan tutte di Mozart e nel 1812 esordì a Parigi, dove ritornò a più riprese fino al 1817. Fu Desdemona dell’Otello di Rossini e verso la fine della carriera interpretò anche parti di contralto quale Tancredi, dell’opera omonima di Rossini, nel 1823. Capiamo allora come sia logico ritrovare nella musica organistica del Morandi l’influsso o addirittura la vera e propria imitazione della musica del suo conterraneo Gioachino Rossini.

Le numerose raccolte del Morandi vennero pubblicate dall’editore milanese Ricordi sotto il titolo Sonate per gli organi moderni. Nelle indicazioni di registrazione ritroviamo la dimestichezza con gli organi di un costruttore celebre: Gaetano Callido.

Callido (1727-1813) segnò l’apice di quella che viene definita la scuola neoclassica veneta, di tendenze nettamente conservative. I registri da concerto erano assai meno che nella tradizione dei Serassi e si limitavano ai tradizionali flauti, alla voce umana (accordata calante), ad un registro con l’armonico di terza denominato cornetta, e ad una o due ance a tuba corta, disposte davanti alla facciata.

I Principali erano di taglio largo e i somieri a tiro, mentre nella scuola serassiana i somieri venivano realizzati a vento, un sistema assai più raffinato e complesso.

Morandi fa riferimento nelle sue musiche ai registri degli organi Callido perché, vivendo nelle Marche, si confrontava con i molti moltissimi strumenti, costruiti in quella regione dall’organaro veneto.

Padre Davide, al secolo Felice Moretti, nacque a Zanica, in provincia di Bergamo, il 21 gennaio 1791. Studiò con Simone Mayr, un bavarese trapiantato a Bergamo, ed ebbe come compagno di studi Gaetano Donizetti. Nel 1818 prese i voti francescani, entrando nel convento di Santa Maria di Campagna in Piacenza. Celebratissimo come organista, fu spesso chiamato come collaudatore di nuovi organi, alla costruzione dei quali sovrintendeva con rara competenza. I suoi numerosi concerti a Milano, Nizza, Genova, Parma, Bologna, Modena, Cesena, per non citarne che alcuni, fecero registrare entusiasmi indescrivibili.

La sua produzione organistica è enorme: 1783 numeri fra Sinfonie, Sonate, Versetti, Offertori, Elevazioni, Post communio, Benedizioni, Marce, Pastorali. Il favore con il quale la sua musica fu accolta e testimoniato dalle numerose edizioni che, lui vivente si stamparono. Padre Davide si spense in Santa Maria di Campagna il 24 luglio 1863.

La musica di padre Davide è musica scritta per il pubblico, musica plateale e di effetto, tutto ciò ottenuto però con una scrittura tutt’altro che banale.

La sua musica ebbe il vivo e assoluto successo, tanto più se eseguita da lui stesso: otto sere consecutive, in cui la chiesa di San Marco a Milano fu riempita con più di 3000 sedie. A Parma San Vitale per un suo concerto si dovettero porre sentinelle armate alla porta della chiesa per contenere l’entusiasmo popolare.

La perfetta adesione all’epoca e la spiegazione più ovvia questo fenomeno: nel periodo storico attraversato da padre Davide, non poté significare altro che una piena adesione allo spirito e alla gestualità del melodramma, con tanto di risvolti politico-risorgimentali, tratti che l’opera italiana assunse ad un certo momento della storia italiana.

Le drammatiche tensioni di una Lucia di Lammermour o di una Beatrice di Tenda servivano, per una sorta di transfer universalmente accettato, ai momenti più importanti della liturgia cattolica. Forse però questi Offertori, queste Elevazioni dove tutto succede, dove il trasporto mistico è espresso nelle forme più verbose ed esteriori, sono ancora il retaggio del desiderio di stupire e meravigliare l’uditore, tipica caratteristica del barocco italiano.

 

Vincenzo Petrali (1830-1889), nato a Crema, fu organista e maestro di cappella di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Oltre ad una cospicua produzione organistica, compose alcune opere liriche e musica vocale sacra.

Le mie Memorie (1878) di Luigi Lingiardi (1814-1882), un organaro di grande valore, ci danno un’immagine particolare di questo musicista. Ogni organo nuovo veniva collaudato: computa l’opera, uno o più organisti si avvicendavano per due o tre giorni alla tastiera del nuovo strumento. Il repertorio era quasi esclusivamente di fantasie, vale a dire improvvisazioni. La partecipazione popolare era chiassosa e festante e dal successo dell’inaugurazione dipendeva la fortuna dell’organaro. A partire dagli anni 60 dell’Ottocento, Petrali divenne uno dei collaudatori di grido. Lingiardi, così sembra di capire leggendo le sue memorie, lo dovrà chiamare per inaugurare molti suoi strumenti, forse a malincuore. Secondo Lingiardi infatti Petrali era persona volubile e venale e appoggiava, per questioni di portafoglio, altri organari; ma quando Petrali inaugurava un organo il successo era assicurato.

Così descrive Lingiardi l’inaugurazione dell’organo di San Francesco in Pavia:

Per collaudo venne chiamato il maestro Petrali ed il giorno 2 novembre 1866 ebbe luogo il primo esperimento a Chiesa libera con un uditorio imponente(.)… Petrali sonò per quattro giorni destando sempre crescente ammirazione. Animato ogn’ora da vivissimi applausi, prodigati da un pubblico secondo a verun altro per intelligenza e buon gusto musicale.

Petrali come scosso da una corrente elettrica suonò superando se stesso. Ed ogni giorno trovava sempre novità e varietà di effetti da incantare ed affascinare, tanto che il suonatore come l’organo si acquistarono fama di un unico-portento, congiunto in due elementi.

La musica che conosciamo di Vincenzo Petrali è tendenzialmente più contrappuntistica ed elaborata armonicamente di quella dei suoi contemporanei. La sua personalità musicale fu sicuramente toccata, negli ultimi anni di vita, da quei fermenti che dovevano sfociare nella Riforma ceciliana. Non fu probabilmente un caso che Petrali inaugurò un organo destinato a segnare una svolta nella storia organaria italiana: l’organo Locatelli della chiesa genovese di Santa Maria della Consolazione, inaugurato il 12 settembre 1880 e costruito su progetto dell’ avvocato Remondini, un fautore della riforma ceciliana. Quest’organo segnò una svolta abbandonando molte delle caratteristiche dell’originaria ottocentesca: i registri spezzati, gli effetti bandistici, la limitata estensione della pedaliera.

Con questa svolta i riformatori volevano girare le spalle al mondo della lirica per aprire l’organo alla tradizione del romanticismo strumentale tedesco e alla musica di Bach, che anche in Italia iniziava a comparire come ineludibile pietra di paragone.